Una questione di dignità

Quanto ci vuole per vivere in Ticino? Quanto per sopravvivere? Quanto è davvero sana un’economia che scarica sullo stato la propria incapacità di remunerare col giusto salario la fatica e le competenze dei propri collaboratori?

Sono queste le domande cruciali imposte dal dibattito sul salario minimo, dopo la modifica della Costituzione approvata su impulso dell’iniziativa popolare “Salviamo il lavoro in Ticino”, promossa dai Verdi e da altre forze di sinistra. Domande alle quali è gran tempo che anche il Gran Consiglio dia una risposta, dopo il messaggio del Consiglio di Stato approvato senza il mio voto nel 2017.

Quella del salario minimo, in effetti, è davvero una significativa cartina di tornasole dello stato di salute di una società e del suo grado di attenzione nei confronti di chi la compone.

Il Consiglio di Stato, a maggioranza, ha optato per una forchetta di salario minimo che le aziende operanti sul nostro territorio dovranno corrispondere alle proprie collaboratrici e ai propri collaboratori; una forchetta che oscilla tra i 18.75 e i 19.25 franchi all’ora. Io mi sono dissociato da questa decisione, considerando che questa forchetta debba partire almeno da 21 franchi all’ora, una cifra che corrisponde grossomodo al minimo vitale per una famiglia media sancito dalle leggi sociali di questo Paese. Nel dibattito commissionale la sinistra ha fatto ancora qualche concessione, ma sotto i 20 franchi all’ora non è davvero possibile andare.

Se il nostro sistema sociale riconosce alle persone nel bisogno un certo importo mensile necessario per vivere, ritengo logico che questo debba costituire il minimo al di sotto del quale un salario non possa più chiamarsi tale o perlomeno possa essere ritenuto non dignitoso. Negare questa semplice evidenza significa, tra le altre cose, ammettere e legalizzare il tanto odiato dumping, ovvero quel meccanismo che permette di preferire ad altri quei lavoratori pronti ad accettare retribuzioni inaccettabili. Stupisce quindi, per inciso, che chi si erge ad autoproclamato difensore del primato dei “nostri” rispetto agli “altri”, appoggiando questa soluzione di fatto autorizzi e perpetui una pratica che non solo non fa da sbarramento agli “altri”, ma colpisce duramente proprio i “nostri”.

Alzando lo sguardo a un orizzonte più vasto, la definizione di un salario minimo inferiore ai minimi vitali riconosciuti dalle leggi sociali svizzere e ticinesi genera la condizione per cui una parte importante di cittadine e cittadini residenti in Ticino continuerà a vedersi costretta a ricorrere agli aiuti sociali. E questo pur lavorando a tempo pieno nell’economia e per l’economia di questo cantone.

La questione è, credo, palese per chiunque la voglia vedere con oggettività: in che misura si può considerare davvero sana un’economia che per poter funzionare (generando comunque profitti) scarica sullo Stato (e quindi sulle tasche dei contribuenti) una parte dei propri costi, nello specifico quelli legati ai salari?

Di fronte a questo dibattito è perlomeno singolare l’atteggiamento di tanti “menostatisti” che, regolarmente, privatizzano i profitti non facendosi però problemi a collettivizzare i costi.

La questione del salario minimo non è nemmeno più una questione di scontro politico. È prima di tutto una questione di rispetto. Rispetto del lavoro. Rispetto delle vite altrui. E naturalmente è una questione di dignità, quella delle persone che lavorano e quella di chi è chiamato a decidere.

Manuele Bertoli

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